Per sua stessa natura l'esposizione temporanea intrattiene con il luogo su cui si disloca un rapporto allo stesso tempo mimetico ed oppositivo. lo spazio non è mai neutro, e anche nel momento in cui lo si vuole anche solo momentaneamente elidere, sovrascrivere, necessita di essere ascoltato, attraversato, compreso, analizzato. sebbene la poetica del cosiddetto white cube, del contenitore asettico e impersonale (con un sua precisa matrice estetico/linguistica, ben collocabile in seno alle teorie e alle pratiche del modernismo euro-americano) occupi ancora una posizione forte nell'immaginario e nelle "speranze" di molti progettisti, la nascita di nuovi e inconsueti spazi espositivi, frutto di riusi, risemantizzazioni e rifunzionalizzazioni di strutture nate per altri destini, impone ormai il continuo confronto con ambienti complessi e spesso apparentemente refrattari ad essere piegati alle esigenze del progetto e dell'esposizione. d'altro canto, e soprattutto in un paese come l'italia, la ristrutturazione di antiche architetture museali e la nascita di nuovi musei (con spazialità spesso "critiche" per le tradizionali strategie produttive ed espositive) impongono al progettista di comprendere sempre più a fondo il senso di un luogo, indipendentemente e dipendentemente da poetiche e cifre formali. in questo senso la fotografia verrà trasmessa come forma d'analisi dei contenitori espositivi e, al di là delle sue specifiche tecniche, come strumento di ascolto e di "innesco" delle successive soluzioni progettuali, come sostanza intellettuale di questa fase istruttoria. dato il contenuto numero di presenze, quest'anno sarà inoltre più semplice revisionare in classe i progetti prodotti dai singoli in itinere e scendere maggiormente sul piano tecnico con vere e proprie dimostrazioni sull'uso dell'attrezzatura professionale e del software necessario alla postproduzione (pur non ruotando il senso generale del corso intorno a questa necessità).
struttura
nel corso della nostra attività verrete accompagnati nella realizzazione di 3 blocchi di elaborati:
la costruzione di un concept e la conseguente realizzazione di due microprogetti fotografici sulla descrizione, il racconto, di uno spazio pieno e di uno spazio vuoto • prima parte del corso
la lettura del testo "specie di spazi" di georges perec, la costruzione di un concept e la conseguente realizzazione di un progetto fotografico sull'intero testo o su una parte di esso, a vostra discrezione •tutto l'arco del corso
l'analisi e la rappresentazione degli ambienti espositivi di tre istituzioni romane impegnate a vari livelli nella produzione ed esposizione di arte e cultura contemporanea: museo MACRO (istituzione pubblica:), NOMAS foundation (istituzione privata), ISR - Istituto Svizzero di Roma (istituzione culturale estera) •seconda fase del corso
gli esiti di queste tre attività, opportunamente revisionati e discussi in classe volta per volta, saranno tutti pubblicati su questo blog.
domenica 25 aprile 2010
Leonardo Magrelli • E01
In questo periodo mi sono venute in mente alcune situazioni che cercano di mettere in crisi l’assolutezza dei termini “pieno” e “vuoto”. Non sono idee concettualmente profonde, in grado di ispirare importanti riflessioni; ma comunque riescono, a mio avviso, a stuzzicare l’intelletto.
3 cl
Se riempio un bicchiere molto piccolo fino all’orlo, e metto la stessa quantità di acqua in bicchieri man mano più grandi, a parità di contenuto, l’impressione che si ha sarà diversa: il bicchierino piccolo risulteràpieno, alludendo a un’azione ancora da compiere, mentre il bicchiere molto grande invece darà l’idea di vuoto, ma, a ben vedere, restituirà anche la certezza che il soggetto che l’ha bevuto possa dirsi pieno! Dunque apparentemente il concetto di vuoto e pieno non riguardano il contenuto, ma il contenente: é allora effimero fotografare una stradina inondata da persone? Sono loro che ci fanno dire che la strada è piena, ma se le mettiamo in piazza enorme il gioco cambia. Tutto è relativo, ma comunque esclusivamente nell’ambito del contenitore, e solo il vuoto è uguale per tutti.
Pieni SAZI
Si pone allora un’altra domanda: quale contenente può essere considerato più importante? Una veduta di una tavola con dei piatti in cui si è consumato un pasto, e dunque ancora sporchi, rappresenta il “vuoto”? I piatti sono sì vuoti, ma il soggetto è “pieno”, e lo scopo di tutto l’avvenimento della tavola e del cibo è proprio quello che il soggetto vuoti il piatto per riempirsi. É palese che tra il personaggio e il piatto domini la figura umana, ma se nella rappresentazione visiva io non vedo il soggetto mangiante, ma solo i piatti vuotati? (non vuoti, tra una tavola imbandita con tutti i piatti ancora vuoti e puliti, e una in cui il pasto è stato consumato, c’è dunque una grossa differenza, sia per l’architettura della tavola, la quale risulterà vissuta, che per la diversa accezione in cui le due situazioni si possono considerare vuote) A rigor di logica dovrebbe continuare a vincere l’uomo, ma l’effetto potrebbe non essere questo. É mia intenzione fare diversi scatti da riproporre in classe per vedere quale sia l’effetto e l’impressione che si ha, quale sia il passaggio del predominio da un contenente all’altro, vedere come variano le impressioni: fare quindi una sorta di ricerca scientifica.
questo blog mutua il titolo e trae ispirazione dal libro di georges perec "specie di spazi" (bollati boringhieri, torino, 1989-2002) ed è lo strumento operativo del laboratorio di fotografia (docente: davide franceschini) della cattedra di exhibit02 (docente: m.c. redini), nell'ambito del corso di laurea in "disegno industriale" della facoltà di architettura "ludovico quaroni", università "la sapienza", roma. nel corso di questo laboratorio si tenterà di investigare lo spazio come campo di azione e reazione, come strumento di verifica delle nostre capacità di costruire nuovo senso attraverso la dimensione dell'ascolto. medium e forse fine di questa riflessione, terreno di questa destrutturazione ragionata, è la presa in considerazione della macchina fotografica come strumento culturalmente connotato/connotante, come medium non mediante ma sovrastrutturante, a qualsiasi livello. il nostro intento è quello di affrontare l'analisi e il racconto dello spazio praticando l'esplosione di questo strumento, imparando a forzarne e a cortocircuitarne l'epistemologia stessa per il tramite del progetto, in un percorso di analisi e azzeramento disciplinato della fonte di registrazione e del soggetto registrante, mirata a sviluppare una modalità d'ascolto non invasiva dei contesti e delle narrazioni, indipendentemente e dipendentemente dalla loro complessità. esito collaterale di questo percorso sarà l'applicazione di questa etica/tecnica del progetto di visione alla lettura e alla rappresentazione dello spazio espositivo d'arte contemporanea, raccontando gli spazi pieni e vuoti di una istituzione pubblica (macro • museo d'arte contemporanea di roma), di un'istituzione privata (nomas foundation • roma) e di un'istituzione culturale estera (isr • istituto svizzero di roma).
L'oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno, o dentro. All'inizio, insomma, non c'è un gran che: il nulla, l'impalpabile, il praticamente immateriale: c'è la distesa, l'esterno, quello che ci è esterno, ciò in mezzo a cui ci spostiamo, l'ambiente, lo spazio tutt'intorno.
Lo spazio. Non tanto gli spazi infiniti, quelli in cui il mutismo, a forza di protrarsi, finisce con lo scatenare qualcosa che assomiglia alla paura, e neppure i già quasi addomesticati spazi interplanetari, intersiderali o intergalattici, ma degli spazi molto più vicini, almeno in teoria: le città, per esempio, o le campagne o i corridoi della metropolitana, o un giardino pubblico.
Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma non è evidente, non è scontato. È reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare. Ci si può perfino lasciare andare a sognare. Niente, per esempio, ci impedisce di concepire qualcosa che non sia né città né campagna (né periferia), o dei corridoi di metropolitana che siano al tempo stesso giardini. Niente ci impedisce d'immaginare un metrò in aperta campagna (ho perfino già visto una pubblicità su questo tema, ma - come dire? - era una campagna pubblicitaria). In ogni caso, è certo che in un'epoca probabilmente troppo lontana perché qualcuno di noi ne abbia conservato un ricordo un minimo preciso, non c'era niente di tutto questo: né corridoi, né giardini, né città, né campagne. Il problema non è tanto sapere come ci siamo arrivati, quanto semplicemente riconoscere che ci siamo arrivati, che ci siamo: non c'è uno spazio, un bello spazio, un bello spazio tutt'intorno, un bello spazio intorno a noi, c'è un mucchio di pezzetti di spazio, e uno di questi pezzi è un corridoio della metropolitana, e un altro di questi pezzi è un giardino pubblico; un altro (qui stiamo entrando in spazi molto più particolareggiati), originariamente di grandezza piuttosto modesta, ha raggiunto dimensioni piuttosto colossali ed è divenuto Parigi, mentre uno spazio vicino, non necessariamente meno dotato in partenza, si è accontentato di restare Pontoise. Un altro ancora, molto più grosso, e vagamente esagonale, è stato circondato da una grossa linea punteggiata (innumerevoli avvenimenti, alcuni dei quali particolarmente gravi, hanno avuto come unica ragione d'essere il tracciato di questa linea) ed è stato deciso che tutto quello che si fosse trovato all'interno della linea punteggiata sarebbe stato colorato di viola e si sarebbe chiamato Francia, mentre tutto quello che si fosse trovato all'esterno della linea punteggiata sarebbe stato colorato in un modo diverso (ma all'esterno del suddetto esagono, non ci tenevano affatto a essere uniformemente colorati: un pezzo di spazio voleva il proprio colore e l'altro ne voleva un altro, donde consegue il famoso problema topologico dei quattro colori, non ancora risolto oggigiorno) e si sarebbe chiamato diversamente (in realtà, per parecchi anni, si è molto insistito per colorare di viola - e nello stesso tempo chiamare Francia - alcuni pezzi di spazio che non appartenevano al suddetto esagono e che ne erano spesso molto distanti, ma, in generale, la cosa ha retto meno bene).
Insomma, gli spazi si sono moltiplicati, spezzettati, diversificati. Ce ne sono oggi di ogni misura e di ogni specie, per ogni uso e per ogni funzione. Vivere, è passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male.
(Avvertenza da Specie di spazi di Georges Perec, Bollati Boringhieri, Torino, 1989-2002. pag. 11)
bibliografia minima
Georges Perec,Specie di spazi, Bollati Boringhieri, 1989
Franco La Cecla,Mente locale (per un'antropologia dell'abitare), Elèuthera, 1993
Piero Zanini,Significati del confine (i limiti naturali, storici, mentali), Bruno Mondadori, 1997
Michel Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972-2004
Roland Barthes, La camera chiara (nota sulla fotografia), Einaudi, 1980-2003
Ugo Mulas, Le Verifiche inLa fotografia, Einaudi, 1973-2007
Stefan Gronert, La scuola di Dusseldorf. Forografia contemporanea tedesca, Johan & Levi, 2010
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